“Ti vengo dentro, bella figa…”

      Francesca era seduta sul suo scooter, parcheggiata accanto al Bar Griso. Qualcuno era convinto che quel nome derivasse dal termine “grigio” in qualche dialetto settentrionale, ma i più istruiti sostenevano che era in realtà uno dei cattivi dei Promessi Sposi. La ragazza non aveva idea di chi avesse ragione, ma di certo, guardando il locale dall’esterno, non avrebbe scommesso sulla seconda ipotesi. A meno che i camionisti e i motociclisti non amassero leggere noiosi libri scritti secoli prima.

      Era entrata lì dentro una sola volta con un ragazzo che sfoggiava un barbone e si credeva una specie di ribelle contro il sistema, senza mai specificare cosa diavolo fosse questo “sistema”, ma si era dimostrato il tipico imbecille che pensava di essere alternativo sebbene sembrasse fatto con lo stesso stampino con cui erano stati creati milioni di altri suoi simili. In ogni caso, quella bettola era il suo ambiente naturale: sporca, buia, con un pesante odore di alcolici, lo schiocco delle palle da biliardo che si scontravano intervallato da bestemmie e imprecazioni. L’unica cosa che le mancava per sembrare uno di quei bar da film americano era la puzza di fumo, ma, a quanto ne sapeva lei, quand’era piccola, le sigarette erano state bandite nei locali pubblici.

      Il locale si trovava nella periferia di Caregan, nella contrada di San Dario, affacciandosi sulla SS50, dove chiunque avesse avuto bisogno di fermarsi poteva trovare ristoro presso il Griso, se non era particolarmente schizzinoso. Ovvio, pensò la ragazza, se davvero fosse stato questa fogna che sembrava, le forze dell’ordine l’avrebbero fatto chiudere, o appioppato multe su multe: se ciò non accadeva, significava che non era così disgustoso come sembrava a lei. Nonostante questo, non ci sarebbe entrata se non costretta, soprattutto per la clientela.

      Una macchina rallentò davanti al bar, uscendo dalla Statale senza nemmeno mettere la freccia e parcheggiando accanto ad un vecchio pickup scassato. Era una Subaru sportiva blu con quella ridicola aletta in fondo, sul bagagliaio, nemmeno fosse stata una macchina da Formula1. Aggrediva la vista tanto era tirata a lucido, senza un granello di sporco sulla carrozzeria, mentre i finestrini erano oscurati come a nascondere l’identità del conducente; sembravano vibrare tanto era elevato il volume della radio della macchina, intento a vomitare musica metal il cui testi sembrarono alla ragazza gente che vomitava a 120 decibel. Francesca non ebbe difficoltà ad indovinare chi ci fosse a bordo: non che ci fossero tanti imbecilli in zona che giravano con auto da trenta e passa mila euro facendo più fracasso di una gara di rally.

      «Dev’essere bello essere il figlio di un assessore della provincia divorziato» mormorò con una forte dose di acida ironia. Non scese dal motorino, ma attese che fosse Mauro a raggiungerla. In fondo lei era una donna, ed un minimo di rispetto quel cretino doveva pur portarglielo, soprattutto se voleva qualcosa per la sua informazione.

      La portiera si aprì, riversando nel parcheggio onde sonore dolorose come pugni nel petto della ragazza. Ci volle qualche secondo prima che l’uomo decidesse che quelle grida più adatte ad un film dell’orrore lo avessero soddisfatto e desse fine a quello strazio spegnendo la radio. Uscì dall’abitacolo mettendo faticosamente una gamba fuori, poi afferrò il tettuccio e si spinse fuori, mostrandosi in tutta la sua altezza.

      Ed era davvero alto, constatò di nuovo Francesca. Non era due metri, ma uno e novanta lo raggiungeva senza problemi. In più, era magro da fare paura, come se la rabbia che lo animava bruciasse calorie meglio di qualunque corso di aerobica che la ragazza avesse mai frequentato. In pieno contrasto con la macchina costosa, indossava abiti di poco prezzo, spesso scelti la mattina dall’armadio con la luce spenta, o più probabilmente raccolti dal pavimento dove li abbandonava la sera precedente, senza la minima concezione di come abbinare colori e stili.

      Non chiuse a chiave la macchina ma si diresse verso Francesca mettendo le mani nelle tasche della maglia con cappuccio, nemmeno avesse avuto sedici anni, e alzando le spalle, come per sembrare ancora più alto, quasi volesse sembrare ancora più aggressivo. Sarebbe stato uno sforzo inutile, pensò lei: bastava guardarlo in faccia per desiderare di attraversare la strada e passare sull’altro marciapiede, anche con il rischio di farsi investire da un camion. Il viso era magro e allungato, con gli occhi azzurri e i capelli biondi tagliati corti. Ma quello che spiccava su tutto era il ghigno sbilenco che gli distorceva il volto in continuazione: Francesca non riusciva a comprendere se fosse quello dell’eccitazione sessuale, di derisione, o tutto insieme uniti alla smorfia di un attacco cardiaco. In ogni caso, le dava i brividi, e le sembrava l’equivalente dei colori brillanti negli animali velenosi per indicare quanto fosse mentalmente instabile.

      Mauro si avvicinò a pochi passi da lei, nella sua bocca semiaperta si vedeva una caramella muoversi, sospinta dalla lingua, intrisa di saliva. La ragazza scommise con sé stessa che adesso l’avrebbe chiamata “bella figa”, come chiamava qualsiasi ragazza minimamente chiavabile. Anzi, avrebbe scommesso che chiamava pure sua madre “bella figa”.

      «Bella figa, hai fatto bene a venire qui» la salutò lui. Il volume della voce era basso, sibilante, come quello che avrebbe avuto un serpente.

      «Sì, sì,» tagliò corto lei. «È bello essere qui con te, in questo splendido luogo. Adesso che mi hai fissato le tette e hai materiale per una zangolata questa sera, dimmi chi è il coraggioso che si fotte Linda e lasciami tornare a studiare».

      Lui rise, o per lo meno emise un verso vagamente paragonabile ad una risata beffarda. «Allora vuoi diventare intelligente anche tu come quella bella figa? Perché non preferisci invece imparare questa nerchia?» domandò lui, estraendo le mani dalle tasche e portandosele all’inguine, come se stesse mostrando il premio finale di un quiz.

      Francesca non avrebbe voluto guardarlo in faccia perché era sicura che, mentre lui si sarebbe sparato una zangolata immaginando di coprirle le tette di sborra, lei avrebbe avuto gli occhi sbarrati nel letto, incapace di prendere sonno con l’immagine di quel ghigno nella mente. E ancora meno avrebbe voluto abbassare lo sguardo sul suo pacco, ma lo fece.

      Deglutì quando, sotto il tessuto di tela beige di un paio di pantaloni di infimo valore, notò un inconfondibile rigonfiamento che partiva dal centro dell’inguine e scivolava nella gamba sinistra. Probabilmente, pensò la ragazza, non indossava le mutande nemmeno lui…

      Doveva essere lungo più di una spanna, riconobbe, ed era ancora moscio…

      Improvvisamente Francesca sentì un forte malessere tra le gambe che, come un crampo, si diffuse fino allo stomaco, quasi avesse mangiato molto senza bere a sufficienza… Pensò che un sorso capace di spegnere quel fastidio avrebbe potuto facilmente trovarlo lì, tra le gambe di Mauro.

      D’accordo, era un coglione, dava fastidio sentirlo parlare e se non ti insultava era perché era intento a metterti le mani addosso ma, forse, anche lui aveva una qualche qualità nascosta. O nemmeno troppo celata.

      Ok, non avrebbe mai confessato alle sue amiche di essersi scopata Mauro, e se fosse girata la voce avrebbe negato perfino davanti all’evidenza, ma una cavalcata su quel cazzone… Dopotutto, era convinta che una con un paio di tette come le sue avesse il diritto di accoppiarsi con un uomo che possedesse le sue stesse perfezioni, sebbene virate al maschile, e non aveva mai trovato nessuno che rispecchiasse quelle caratteristiche.

      Certo, non gliel’avrebbe data come se nulla fosse, ma la scusa di pagarlo per il nome che l’aveva portata fino a quel buco di bar non l’avrebbe fatta passare per un’arrapata che si scopava chiunque, anche perché non si sarebbe aspettata nessun’altra richiesta da uno come lui.

      «Dai, non mi importa nulla del tuo uccello» disse, faticando a distogliere lo sguardo proprio dal soggetto della sua frase. Sentiva in realtà la sua fica cominciare a bagnarsi, come se fosse stata una bocca pronta a degustare qualche leccornia. «Dammi quel nome e poi lasciami andare!»

      Quella raccapricciante risata uscì nuovamente dalla bocca di Mauro. «Solo perché sei una bella figa ti do il nome senza volere niente? Io voglio una cosa, o niente nome».

      «E cosa?» domandò lei.

      Il ghigno si allargò ulteriormente, perdendo ancora più la sua labile illusione di intelligenza e rivelando la vera natura del desiderio dell’uomo. Non sarebbe stato necessario spiegarlo con le parole, anche solo considerando come Mauro fissò l’inguine della ragazza.

      Lei si sentì improvvisamente indisposta nei suoi confronti, come se il suo cervello avesse ripreso il sopravvento sulla sua vagina e la ragione cominciato ad avere più voce del bisogno di soddisfazione sessuale. Valeva davvero la pena di abbassare le proprie difese davanti ad uno come Mauro, che sembrava l’ultima persona al mondo a cui affidare la propria sicurezza? Francesca poteva nominare parecchi ragazzi ben poco raccomandabili che si era portata a letto, soprattutto per il suo interesse, e che sua madre non avrebbe approvato, ma nessuno si avvicinava all’essere sbavante davanti a lei. Buona parte dei ragazzi che si consideravano dei bastardi che lei conosceva non erano altro che sciocchi che credevano di poter impressionare una donna imprecando e fingendo di essere dei duri, ma nessuno di loro era anche solo lontanamente al livello di Mauro. Lui era pericoloso.

      Ma, in fondo, cos’avrebbe potuto farle? Di certo non l’avrebbe picchiata, soprattutto se quei due neuroni che aveva nella testa gli avessero fatto presente che, trattandola bene, lei avrebbe accettato di farsi fottere di nuovo. Dopotutto, come avrebbe potuto resistere a quel grosso, lungo…

      Francesca non riuscì di nuovo a tenere lo sguardo lontano dal grosso, lungo cazzo. Detestava Mauro, lo temeva, ma lo voleva… no, comprese deglutendo di nuovo, il tessuto delle mutandine che iniziava a inumidirsi: lo doveva avere dentro di sé.

      Fissò per un istante o due di troppo il pacco dell’uomo, poi concesse, quasi senza accorgersene, il pagamento che lui imponeva, facendolo sogghignare e rispondere con qualcosa che lei non intese ma suppose, con quel poco di intelletto che ancora non era stato sommerso dal desiderio, che non fosse stato un cortese complimento.

      Francesca temeva che Mauro l’avesse fatta andare al bar Griso per scoparla in uno dei gabinetti.

      Non sarebbe stata la prima volta che, per un suo tornaconto, si trovava a soddisfare un ragazzo, accettando la sua proposta di farlo in un bagno pubblico: la cosa di solito era breve, una sveltina che la soddisfaceva poco, lui che si svuotava le palle diventando suo schiavo, almeno per un po’. Non lo avrebbe ammesso, ma fare sesso in un ambiente simile la disgustava, e non tanto per il fatto che avrebbe preferito farlo in un letto, per quanto molti non riuscissero a capire che, magari, sarebbe stato possibile cambiare strategia, adottandone una più dolce nel secondo caso. Era proprio il trovarsi in una stanzetta di un metro per un metro e mezzo per tre metri, al cui centro svettava una tazza in cui la gente svuotava intestino e vescica, a disgustarla. Per non parlare del fatto che lei avrebbe dovuto accompagnare lui in un’area in cui si entrava solo ed esclusivamente se dotati di cazzo o di figa, solitamente il primo caso, con gente che li guardava male o, peggio, con lo sguardo libidinoso tipico di chi pensa ad altre persone intente a fare sesso.

      In effetti, era più l‘essere vista come una ninfomane incapace di tenerla nelle mutande a darle veramente fastidio, anche più del trovarsi con le sue belle scarpe in mezzo a gocce di piscio di sconosciuti per una scopata tanto scarsa che le sarebbero bastate un paio di sue dita e la foto di qualche sportivo un po’ carino per provare più piacere.

      Mauro, in realtà, non aveva intenzione di portarla dentro al bar. Invece si allungò mentre lei era ancora intenta a immaginare cosa avesse davvero in mezzo alle gambe, la afferrò per un braccio con ben poca grazia, la tirò giù dal motorino, e la guidò verso la sua auto, la Subaru.

      Francesca non amava particolarmente fare sesso in un’auto: era alta un metro e ottanta, e quelle dannate scatolette sembravano essere state inventate per metterci nani e gnomi da giardino. Cavalcare qualcuno era scomodissimo, con la testa piegata a causa del tettuccio, succhiarglielo era un tormento per la presenza del volante e dell’asta del cambio. Una zangolata, magari, sarebbe stata una cosa ancora fattibile, se non si considerava il brutto vizio del maschio a spruzzare letteralmente seme in ogni dove, macchiando tutto. Ma in fondo l’auto era sua, così come la bega che l’avrebbe smerdata. Ecco, un ditalino sarebbe stato molto piacevole, ma dubitava molto che Mauro fosse uno di quelli che trovassero il vero piacere nel dare orgasmi ad una donna. O, meglio ancora, una sessione di baci. Quello sì, l’avrebbe apprezzata molto.

      Poi pensò che non avrebbe infilato la sua lingua nella bocca di Mauro. No: per qualche motivo le ricordava una dannata tagliola per orsi, di quelle dentate che si vedevano nei cartoni animati. Arrugginita, con peli di animali e sangue secco e…

      Si accorse che superavano l’auto e, proseguendo così, una dopo l’altra, anche le altre parcheggiate. Arrivarono in fondo allo spiazzo e la trascinò oltre l’angolo dell’edificio del bar, in un vicolo in ombra, pieno di spazzatura e oggetti rotti e arrugginiti. Il fondo era una gettata di cemento nuda, fatta con poca grazia, il cui centro era facilmente indovinabile da una striscia di sabbia portata dall’acqua quando pioveva.

      «Dove diavolo mi-»

      «Zitta, bella figa!» gl’impose lui, aggiungendo uno strattone che le strappò un grido e la fece incespicare. La ragazza capì che Mauro non l’avrebbe più lasciata andare, e che se non avesse avuto ciò che voleva sarebbero stati probabilmente pugni e calci.

      Non vide altra alternativa al seguirlo e accettare quello che voleva fare. E tutto quello per un cazzo di nome… Fanculo a Linda e al coglione che se la scopava.

      Il vicolo divideva il bar da un capannone prefabbricato che doveva avere almeno cinquant’anni, di metallo arrugginito, le finestre con buona parte dei vetri rotti o completamente mancanti. Con un’occhiata all’interno attraverso una porta divelta, Francesca vide il pavimento coperto da terra soffiata all’interno dal vento e trasportata dalla pioggia, su cui erano cresciute alcune erbacce dall’aspetto malaticcio. Macchinari imbrattati e che non avrebbero più funzionato nemmeno dopo una profonda revisione le fecero supporre che all’interno di quel capannone venissero riparate automobili o, più probabilmente, a giudicare da un grosso copertone alto quanto lei, trattori.

      Un macilento gatto dal pelo sporco sollevò il muso lordo di sangue dalla carcassa di quello che doveva essere stato un grosso topo, soffiò contro di loro, poi, comprendendo che non avrebbe potuto fare nulla per fermarli, s’infilò correndo sotto alcune assi di legno marce, saltò su una cassa di metallo che un tempo doveva essere nero ma ora era per lo più arancione di ruggine e tarlata dall’azione delle intemperie e balzò in una finestra rotta, scomparendo nel capannone. Un paio di piccioni espressero ad alta voce la loro disapprovazione per il passaggio del felino nel loro territorio.

      All’improvviso, la ragazza si sentì spingere e la sua schiena sbatté contro il muro di cemento del bar, tra una pila di fusti di una marca di birra che non aveva mai sentito nominare e dei bancali impilati che emettevano un odore nauseabondo e su cui, da anni, dei rampicanti avevano ormai messo radici, riempiendoli di foglie morte e ospitando quelli che sembravano nidi d’uccello abbandonati da tempo.

      Guardò Mauro che continuava a tenerla per un braccio, mentre la mano libera trafficava con imbarazzante difficoltà sul bottone dei pantaloni. Imprecò un paio di volte finchè la rotellina di plastica non uscì dal taglio nel tessuto.

      Lei scosse il braccio perché lui la lasciasse. Mauro abbandonò i pantaloni, fissandola con astio. Francesca ebbe un attimo di timore, ma poi cercò di riprendere il controllo della situazione, o almeno farlo credere all’uomo. Con un ultimo movimento si liberò dalla presa.

      «Anch’io ho una voglia pazzesca di fare l’amore con te, Mauro» disse, rendendosi conto in quel momento quanto le fosse passato ogni eccitamento e avrebbe preferito inseguire il gatto per nascondersi con lui in qualche buco pieno di ragnatele. Ma sapeva che non poteva dire allo stronzo davanti a lei che aveva cambiato idea, o, se fosse stata fortunata, si sarebbe risvegliata in un ospedale, «ma abbiamo un accordo. Voglio quel nome».

      Si aspettava che avrebbe preteso prima il rapporto e solo dopo gli avrebbe rivelato chi era il poveraccio che non aveva trovato di meglio della fica di Linda, e magari anche allora avrebbe voluto qualche altro servizietto per dirlo.

      E invece Mauro, ora con tutte e due le mani libere, riprendendo ad abbassarsi i pantaloni, disse: «Tommaso Varotto. Ci andavo a scuola insieme. Una volta l’ho picchiato» come se stesse parlando del tempo. I pantaloni scivolarono lungo le gambe.

      Francesca aveva le dita attorno all’elastico degli short, quando sentì il nome. Si bloccò di colpo, tutta la sua attenzione a cercare nella sua memoria dove avesse già sentito quel ragazzo. «Chi…» mormorò, con gli occhi che avevano smesso di mettere a fuoco il mondo esterno a favore di quello mentale. Non gli era nuovo, quel nome…

      «Tommaso Varotto» disse Mauro, questa volta con la noia di ripetere un concetto nella voce. Afferrò i pantaloncini in jeans della ragazza e, senza troppa grazia, glieli abbassò con uno strattone.

      Francesca ebbe un sussulto, strappata dai suoi pensieri. Sentì improvvisamente l’aria fredda del vicolo in ombra accarezzarle le labbra della sua fica e ad asciugarle il desiderio che le imperlava, ma a differenza delle altre volte la sensazione fu ben poco piacevole. Abbassò lo sguardo e, oltre il suo grosso seno, poté notare che a Mauro l’aria fredda non stava facendo affatto effetto.

      Solitamente, quando aveva davanti a sé un uccello in erezione, lo prendeva con una mano, sorridendo all’uomo che ci era attaccato, dicendogli che era davvero grosso, e accarezzandolo. In quel caso, però, la mano avrebbe voluto portarsela alla bocca, gli occhi sgranati.

       Quello che puntava minaccioso contro la sua passera non era un cazzo, quanto piuttosto quello che si poteva considera il terzo avambraccio di Mauro. Doveva essere lungo almeno il doppio di un normale, confortante uccello, e questo senza considerare la circonferenza: Francesca non sarebbe stata sicura di riuscire a cingerlo completamente anche usando entrambe le mani. Vene viola e blu, disposte apparentemente a caso, rompevano il colore rosa della pelle, che si apriva svelando una cappella viola, minacciosa, appena più grossa dell’asta. Un taglio longitudinale, che negli altri ragazzi che Francesca si era fatta si notava solo se si teneva il cazzo a cinque centimetri dagli occhi, nella punta di Mauro aveva le dimensioni di una asola da camicia.

      La ragazza deglutì a quella vista, terrorizzata. Chi aveva messo in giro la voce che Mauro fosse superdotato e basta doveva essere abituata a farsi sbattere dai cavalli, pensò. E pensò pure che per prepararsi ad accogliere dentro di sé un cazzo del genere sarebbero state necessarie delle lunghe ed estenuanti sessioni di fisting.

      «No, Mauro, aspetta…» lo implorò, cercando di allontanarlo con le mani contro il suo petto. Essere riempita di botte le sembrò un’alternativa migliore dell’essere riempita con quell’anaconda.

      Ma lui non l’ascoltò: le mise una mano sulla bocca, zittendola, mostrando del suo splendido viso solo gli occhi terrorizzati che imploravano pietà. L’altra mano si infilò sotto la maglietta, risalendo fino ad un grosso, turgido seno che strinse come gli artigli di un’aquila si serrerebbero attorno alla sua preda. Poi Francesca percepì l’ingresso del suo utero aprirsi sempre più, al pari di una bocca intenta a sbadigliare. No, anzi, le passò per la mente l’immagine che aveva visto anni prima in un documentario di un serpente che disarticolava le mascelle per poter inghiottire un uovo di struzzo.

      Si alzò in punta di piedi, come se questo potesse diminuire la spinta che quella trave stava imprimendo alla sua fica, un grido roco che saliva dal suo petto quasi il cazzo la stesse riempiendo al punto tale da spingerle l’aria fuori dai polmoni. Mai più si sarebbe lamentata di un cazzo di dimensioni normali: le sue tette sarebbero state solo per amanti capaci, non superdotati, si promise mentre i suoi occhi iniziavano ad inumidirsi più velocemente di quanto lo facesse la sua passera.

      Le sembrò che Mauro volesse metterglielo dentro tutto, lo sentì sbattere contro la sua cervice, un dolore che si propagò fino alla calotta cranica e poi rimbalzare indietro, azzannando ogni fibra del suo corpo. Iniziò ad ansimare, ma non certo per il piacere, mentre lui iniziò a uscire per quelli che sembrarono quindici centimetri, e poi rientrare fino in fondo. Letteralmente fino in fondo.

      Francesca cominciò a sentire lo stimolo a rigettare, ma provò a trattenersi. In effetti, trovò il senso di nausea allo stomaco più gradevole di quello che percepiva nel suo inguine, e cercò di concentrarsi sul primo per non pensare al secondo.

      Lo sentì rientrare dentro di sé, non velocemente, ma con forza, i muscoli della sua fica che gemevano per il dolore e la fatica di riuscire a dilatarsi a sufficienza. Per un attimo pensò che dovesse provare la stessa sensazione di essere impalata, e si aspettò di trovarsi la cappella di Mauro che la sfondava nel vero senso della parola, uscendole dalla schiena e inchiodandola al muro. Se non fosse stata zittita dalla mano sulla bocca, avrebbe implorato aiuto anche ai motociclisti nel bar, disperata.

      Sentì le piccole labbra tirarsi mentre il cazzo usciva di nuovo, quasi non avessero la forza di restare attaccate al resto della sua passera, il resto del canale che collassava al vuoto lasciato dal glande in ritirata. Sembrava le avessero applicato all’inguine una di quelle macchine per il sottovuoto…

      Forse solo in Mauro l’eiaculazione precoce poteva essere considerato un pregio. Dopo una decina di colpi inferti al sesso della ragazza gliene diede uno ancora più forte che la fece strillare, poi si fermò, appiattendosi contro di lei, i seni bollenti che si schiacciavano contro il petto dell’uomo.

      «Ti vengo dentro, bella figa…» sibilò lui, chiudendo gli occhi e lasciandosi sfuggire un grugnito di piacere.

      Francesca non aveva avuto bisogno dell’avviso, sentendo il cazzo dentro di lei come percorso da una vibrazione e poi un liquido caldo invaderle la figa. Sperò con tutta l’anima che Mauro avesse finito.

      E fu così. L’uomo sembrava non conoscere il concetto di coccole, o anche solo di ringraziamento: una volta raggiunto l’orgasmo, lasciò il seno su cui sarebbe rimasto il segno per qualche giorno, tolse la mano dalle labbra della ragazza, che respirò avida di ossigeno, e fuoriuscì da lei quasi si fosse accorto all’improvviso di aver penetrato per errore il tubo di scolo di una fogna.

      Lei, improvvisamente libera, senza il doloroso sostegno di lui, con le gambe che le cedettero, si accasciò sulla pila di bancali, afferrando i rampicanti e ritrovandosi il viso nelle foglie secche e i nidi di uccello dismessi. «Cazzo…» sibilò, stordita, mentre sentiva il seme di Mauro cominciare a colarle fuori dalle grandi labbra e scivolare lungo la gamba destra.

      Mauro aveva indossato di nuovo i pantaloni e se li stava allacciando. Alzò lo sguardo verso la ragazza che aveva appena devastato per due secondi di piacere. Lei lo fissava a sua volta, la bocca aperta, sul viso sudato l’espressione di chi è appena sfuggito dagli alieni per un soffio e non riusciva a crederci. Lui sorrise, di nuovo quell’osceno ghigno. «Ti è piaciuto, bella figa» constatò, incapace di comprendere che una donna avrebbe potuto preferire qualcosa di diverso da un avambraccio conficcato nel proprio sesso.

      Francesca non rispose, sia per la mancanza di fiato, sia per il fatto che le uniche parole che le giravano nella mente riguardavano la sfrenata vita sessuale della madre di Mauro e sarebbe stato meglio non scatenare la sua ira: dopo la sua passera, non voleva che anche il resto del suo corpo venisse martoriato.

      «Tommaso Varotto» ripeté, finendo di alzare la cerniera lampo. Senza salutare o aiutare la ragazza, si voltò e si diresse verso l’uscita del vicolo, ma dopo qualche passo si fermò, girandosi verso Francesca. Il ghigno si era allargato ancora di più. «Adesso sai cosa fare se hai bisogno di me». Poi si voltò e uscì dal passaggio.

      Francesca rimase forse un minuto appoggiata a quella puzzolente catasta di bancali marci e lerci, cercando di non mettersi a singhiozzarsi. Sentì la macchina del suo orribile scopatore accendersi e un attimo dopo le gomme stridere mentre abbandonava il parcheggio.

      Non aveva mai sperimentato un dolore simile alla fica, e sperò che non sarebbe mai più accaduto. Anche il seno destro le doleva, e pensò che quello stronzo l’avesse stretto al punto tale da lasciarle il segno delle dita: se le fosse passato per la mente di togliersi la maglietta e fare il pompino alla gara in topless, adesso la cosa era da escludere completamente. Così come escludeva categoricamente di chiamare Mauro per qualsiasi motivo. Assolutamente. Anche a costo della propria vita.

      Con una smorfia si sollevò dai bancali e con una ancora più intensa si accosciò per sollevarsi i pantaloncini. Imprecò nel vedere la sborra che le era colata lungo una gamba e le intrise gli short quando li alzò, macchiandoli. Per lo meno, era solo liquido di quello stronzo, e non suo, magari rosso. Una volta a casa si sarebbe fatta il più profondo bidet della sua vita, oltre ad una doccia di mezz’ora, e gettato quei pantaloncini nella spazzatura. O bruciati.

      Meglio bruciati.

      Appoggiandosi al muro del bar, la ragazza arrancò verso il parcheggio, ancora stordita, zoppicando. E tutto quello per conoscere il nome di uno che scopava Linda. Cazzo…

      Eppure, si disse, era convinta di aver già sentito parlare di questo Tommaso…

Continua…

Nella raccolta:

Una storia di amore, rivalsa e pompini.

Scritto da:

Sedicente autore di racconti erotico, in realtà erotomane con la passione della scrittura creativa. Per contattarmi, critiche, lasciarmi un saluto o richiedere il racconto in PDF, i miei contatti sono: 📧 william.kasanova@hotmail.com 📱 https://t.me/WilliamKasanova

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